Parole della domenica ai tempi del virus, allarme di Italia Nostra per il degrado delle Terme Tamerici
Italia Nostra Valdinievole ha lanciato un grido d’allarme sullo stato di abbandono delle Terme Tamerici. Quello che era considerato fino a poco anni fa uno dei gioielli del patrimonio termale, ora rischia di emulare per degrado la situazione disastrosa dello stabilimento Torretta e di altri edifici.
L’associazione presieduta da Italo Mariotti infatti punta l’attenzione su tre beni storico-architettonici della Valdinievole che versano in pessime condizioni e rischiano di andare perduti. L’esperto d’arte Paolo Bellucci segnala le Terme Tamerici, che tra l’altro vantano la presenza fondamentale delle preziose ceramiche di Galileo Chini.
Già definito “un gioiello di architettura e d’arte decorativa in un luogo di verde tranquillità”, lo stabilimento – un tempo Villa Schmitz – fu reso nella forma attuale nei primi anni ‘900 dall’architetto Giulio Bernardini, che gli seppe dare “un’impronta e uno stile particolari risultati dalla fusione di elementi decorativi del Rinascimento toscano e del Moresco veneziano” (cit. Alfredo Michelotti).
Fino a pochi anni fa, lo stabilimento faceva parte delle ricche offerte termali di tempo libero per i turisti in alternativa ai vari tipi di cure. Un tempo chiamato il “Circolo dei forestieri”, era aperto soprattutto nel pomeriggio ed offriva occasioni di incontro di vario tipo per il relax degli ospiti: c’erano mostre, concerti, incontri culturali, sale di lettura ma anche importanti convegni di carattere medico e scientifico.
Spesso le Tamerici venivano aperte di sera per varie iniziative anche di spettacolo.
Tutto questo, purtroppo, è oggi un ricordo e il rischio di degrado, anche a causa di ripetuti vandalismi, è molto alto. Ha fatto bene, dunque, Italia Nostra a lanciare questo grido di allarme per lo stato di abbandono e di degrado in cui si trovano tre strutture di valore. Oltre alle Tamerici, Alessandro Naldi segnala lo storico Mulino Minghetti (1789) in località Spicchio (Lamporecchio), di proprietà dell’Asl Toscana Centro, ridotto a discarica e prossimo al crollo, mentre Pietro Neri segnala il Villino Medici in località Anchione, originariamente decorato con pitture su sfondo rossastro, presenti anche nelle stanze interne. Versa in condizioni di precaria stabilità, aggravata recentemente dal crollo di una porzione di tetto.
Le parole della domenica – raccolte come sempre nel web e nei giornali – si occupano della declinazione dei nomi al femminile, dopo le polemiche suscitate dalle parole pronunciate da Beatrice Venezi al recente Festival di Sanremo; e, infine, un esperto giornalista parla del calcio che cambia ma forse più a parole che per le imprese sui campi.
Buona domenica e buona lettura.
(a cura di Mauro Lubrani)
Signora, meglio direttore o direttora?
Signora, come la devo chiamare? Direttore, direttora, direttrice?Da quando dirigo La Nazione è la domanda che mi è stata fatta più spesso indistintamente da uomini e donne. E mi ha messo fin da subito nella condizione di dover riflettere molto seriamente sull’uso delle parole e sull’importanza del linguaggio per definirci: come professioniste, ma ancora prima come persone. Il caso di Beatrice Venezi a Sanremo e le polemiche che ne sono seguite mi ha quindi confermato un’amara verità: in Italia nel 2021 il modo con cui una donna viene chiamata, o sceglie di farsi chiamare, è una questione politica, strumentalizzata dalla politica per veicolare messaggi e campagne che piegano le battaglie per la parità di genere al proprio tornaconto ideologico. Direttore piace alla destra. Direttora alla sinistra. Direttrice sarebbe semplicemente lingua italiana (la declinazione al femminile di una parola che prevede grammaticalmente l’uso del femminile), ma non a tutti è ancora chiaro. Quando una donna sceglie il modo con cui vuole farsi chiamare, nell’ambito della sua professione, viene immediatamente giudicata: è femminista, no è maschilista. E’ ingenua, no è noiosa. È fascista, no è comunista. C’è chi addirittura la butta sull’estetica: c’è, ovvero, chi si sente legittimato a dire se una parola piace o non piace (da quale punto di vista, esattamente? Fonetico, armonico, neomelodico?) quando declinata al femminile. Pazzesco, non trovate? Negli anni ’70 le donne si battevano per poter disporre del proprio corpo con autonomia e libertà di coscienza. Oggi siamo a battagliare per poter disporre del nostro nome, e dunque della nostra identità, con un’autonomia e una libertà che ancora evidentemente non abbiamo, visto che il modo con cui scegliamo di farci chiamare è sottoposto al severo giudizio di una parte o dell’altra dell’opinione pubblica.Per la cronaca, rispondendo alla domanda iniziale: io ho scelto di farmi chiamare direttrice.
Agnese Pini – direttrice de “La Nazione”
post su Facebook del 7 marzo 2021
Il nuovo calcio: ma forse cambia solo a parole
Il nuovo calcio. La pandemia ci ha rinchiuso in casa invogliandoci a pensieri e riflessioni. Io ho fatto il giornalista di calcio da quando avevo quindici anni (anni 50). Oggi devo constatare che, pur rimanendo invariate le misure del campo, dell’area di rigore, dell’area di porta, del cerchio di centrocampo, ecc. rispetto a quelle codificate all’inizio del vecchio millennio, è davvero cambiato tutto. E mi vengono rimpianti perché avrei potuto fare una diversa e più importante carriera. Così come avrebbero raggiunto vette di chiassosa celebrità alcuni miei amici ex calciatori di cui approfitto per far capire. Per esempio prendiamo Andrea Mangoni e Walter Casarotto. Due eccellenti difensori, che hanno alle spalle carriere importanti, che sono ancor oggi ricordati per qualità tecniche e caratteriali, per professionalità e serietà. Ebbene: se Andrea e Walter fossero stati “difendenti” anziché “difensori” sarebbe stata altra musica. E pensate poi se Andrea non avesse ricoperto il ruolo di “libero” (ohibò) e Walter si fosse messo “quinto” di sinistra. Fra l’altro ambedue difendevano anziché fare densità. E, quando potevano, organizzavano il contropiede (altro ohibò) invece delle “ripartenze”. Non parliamo poi dei mediani. Chiamandosi così uno come il mio amico fraterno Bolchi è stato capitano dell’Inter, prima figurina Panini, nazionale azzurro, ma certamente sarebbe assurto a Pallone d’oro se fosse stato un “intermedio”. E l’altro grande amico Fogli? Era un mediano normale, ma avrebbe potuto essere un “tuttocampista” e allora altro che scudetti, maglia azzurra, gol nello spareggio tricolore del 1964! E gli attaccanti? I vecchi centravanti al massimo erano “goleador”. Adesso sono anche “falsi nuove”. Altra ciccia… e poi le azioni di gioco. Una volta sui corner (ai tempi del calcio antico si chiamavano così….) si saltava di testa, punto e basta. Ora si fa col “terzo tempo” e bisogna ammettere che è un’altra cosa (Puricelli appartiene alle eccezioni della preistoria. Diciamo anche del fallo laterale che i cantori televisivi moderni definiscono “touche” parafrasando il rugby. Non voglio annoiare oltre. È però indubbio che siamo davanti ad un altro calcio. Che i filosofi televisivi portano avanti con “qualità” (ai miei superati tempi si chiamava “classe”).
Alfio Tofanelli – giornalista – post su Facebook del 8 marzo 2021
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